Una recente ricerca dell’Università di Edimburgo ha svelato un sorprendente legame tra la demenza felina e l’Alzheimer umano. Per la prima volta, è stato documentato che i gatti affetti da sindrome da disfunzione cognitiva accumulano beta-amiloide nel cervello, una proteina tossica che compromette le sinapsi, le connessioni cruciali tra le cellule cerebrali. Questo fenomeno genera un quadro neurologico simile a quello osservato nei pazienti umani affetti da Alzheimer.
Lo studio, pubblicato sull’European Journal of Neuroscience, ha analizzato i cervelli di 25 gatti di età variabile, deceduti per cause naturali. Alcuni di questi animali avevano mostrato segni di demenza geriatrica durante la loro vita. I sintomi riscontrati nei felini includevano confusione, disturbi del sonno, un aumento della vocalizzazione notturna e modifiche nel comportamento quotidiano. Fino ad oggi, nessuna ricerca aveva dimostrato con tale chiarezza che anche gli animali domestici potessero sviluppare forme degenerative simili a quelle umane.
Scoperte chiave sui cervelli dei gatti
Gli scienziati hanno osservato che nei gatti anziani, in particolare quelli con sintomi neurologici già evidenti, si registrava una massiccia presenza di beta-amiloide all’interno delle sinapsi. Queste strutture, compromesse dalla tossicità della proteina nei malati di Alzheimer, ostacolano la corretta trasmissione dei segnali nervosi. La degenerazione sinaptica, sia negli esseri umani che nei gatti, rappresenta uno degli aspetti fondamentali del decadimento cognitivo progressivo.
La professoressa Danielle Gunn-Moore, coautrice dello studio, ha dichiarato: “La demenza felina rappresenta un modello naturale ideale per lo studio dell’Alzheimer umano. Comprendere questa patologia nei gatti può portare benefici reciproci: per i felini, per i loro proprietari e per i pazienti umani affetti da demenza.” Questo studio, il primo nel suo genere su gatti domestici non geneticamente modificati, segna un importante cambiamento di paradigma. Fino a oggi, le ricerche si erano concentrate principalmente su roditori da laboratorio, geneticamente predisposti a sviluppare sintomi simili alla demenza, ma non naturalmente soggetti a questo tipo di decadimento neurologico.
L’analisi di gatti domestici già affetti da sintomi clinici e deceduti per cause naturali ha permesso di validare un legame reale tra il comportamento osservato e le lesioni cerebrali effettive, offrendo nuovi strumenti per il riconoscimento e la prevenzione della patologia.
Demenza felina: sintomi e difficoltà nella diagnosi
Nel 2022, anche l’Università degli Studi di Milano ha avviato un’indagine sulla sindrome da disfunzione cognitiva nei gatti, i cui risultati sono attesi con interesse. Il veterinario e docente universitario Giuseppe Borzacchiello, interpellato da Kodami, ha sottolineato che “la demenza è una condizione comune nella vecchiaia, ma spesso viene sottovalutata. I cambiamenti comportamentali vengono attribuiti all’età e non riconosciuti come segnali di una patologia.”
I sintomi più comuni comprendono disorientamento, difficoltà a trovare la lettiera o la ciotola, apprendimento compromesso, irrequietezza, confusione notturna e comportamenti apparentemente immotivati. Anche un sonno disturbato e un aumento del miagolio notturno possono essere segnali da non trascurare.
Attualmente, non esiste una cura risolutiva, ma la terapia sintomatica può migliorare la qualità della vita dell’animale, soprattutto se iniziata precocemente. Alcuni farmaci, modifiche ambientali e stimolazioni cognitive possono rallentare il decorso della malattia. Tuttavia, la diagnosi è spesso complessa: sono necessari esami neurologici specifici, test comportamentali e, idealmente, una valutazione post mortem, come avvenuto nello studio scozzese. La consapevolezza dei proprietari sarà fondamentale per la diagnosi precoce.
Questa nuova evidenza scientifica, emersa dai ricercatori britannici, apre prospettive significative anche nel campo delle neuroscienze umane. Se i gatti si dimostrano un modello efficace per lo studio dell’Alzheimer, sarà possibile testare terapie e approcci diagnostici in modo meno invasivo rispetto agli attuali modelli animali.
Il panorama che si delinea è duplice: da un lato, una maggiore attenzione medica per gli animali anziani, dall’altro, un potenziale salto di qualità nella comprensione delle malattie neurodegenerative che colpiscono anche l’uomo.